150 anni fa Canepina diventò un libero comune italiano

Un’illustrazione commemorativa del Plebiscito per Roma Capitale.

Il 2 ottobre 1870 si svolse il Plebiscito per l’annessione al Regno d’Italia
Il risultato del voto dei canepinesi fu schiacciante: 139 «sì» e 3 soli «no»

CANEPINA – Esattamente 150 anni fa, il 10 ottobre 1870, Canepina diventò a tutti gli effetti italiana. E vide così realizzarsi un sogno inseguito per oltre otto secoli: diventare un libero comune. Un’aspirazione, quest’ultima, che dapprima Viterbo, poi i Farnese e infine il papato avevano frustrato.

Un mese prima, il vecchio, gottoso e anacronistico Stato Pontificio si dissolse.  Finalmente. Erano le 5 del mattino del 20 settembre 1870, quando le truppe del Regno d’Italia al comando del generale Luigi Cadorna (circa 50mila uomini) cominciarono a cannoneggiare le mura di Roma nei pressi di Porta Pia. Poche ore dopo un tratto delle mura crollò e i bersaglieri entrarono nella città attraverso la celebre breccia. A fronteggiarli c’era l’esercito papalino, composto da circa 15mila uomini tra dragoni pontifici, guardie svizzere e volontari provenienti da diverse nazioni. Per ordine del Papa Pio IX opposero una resistenza quasi simbolica e si arresero subito dopo l’apertura della breccia. Il bilancio fu di 49 morti tra le truppe italiane e 19 tra quelle pontificie.

I bersaglieri entrano a Roma dalla breccia di Porta Pia.

Una dozzina di giorni dopo della presa, o meglio la liberazione di Roma, cioè il 2 ottobre, fu convocato il Plebiscito: gli abitanti dei territori dell’ex Stato Pontificio, tra cui Canepina, furono chiamati alle urne per decidere se aderire al Regno d’Italia o no. Il quesito proposto alla popolazione era semplice e chiaro: «Desideriamo essere uniti al Regno d’Italia, sotto la monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori». Il risultato a Canepina fu inequivocabile: 139 «sì» e 3 «no». Il diritto di voto era riservato solo agli uomini che superavano un determinato reddito. A Canepina erano complessivamente 207. A Roma i «si» furono 40.785, a fronte dei soli 46 «no». Il dato complessivo nella provincia di Roma fu di 77.520 «sì» contro 857 «no». In tutti i territori annessi i «si» furono 133.681 contro 1.507 «no».

A favorire l’esito del Plebiscito, che oggi si direbbe «bulgaro», fu anche il pressante invito rivolto dalle gerarchie ecclesiastiche ai cattolici affinché boicottassero il voto. Una mossa assolutamente sballata poiché consentì al Regno d’Italia di riportare una vittoria schiacciante, oltre ogni previsione.

Pio IX definì «ingiusta, violenta, nulla e invalida» la presa di Roma e si dichiarò prigioniero politico. Non accettò nessun accordo e nel 1874 proclamò il Non Expedit, cioè il divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica. Divieto che cadde solo con la nascita del Partito Popolare di Luigi Sturzo nel 1919. I rapporti tra il papato e lo Stato italiano si normalizzarono dieci anni dopo, con la firma dei Patti Lateranensi.

L’annessione formale dei territori dello Stato Pontificio all’Italia avvenne il 9 ottobre 1870, con il Regio Decreto numero 5903, che all’articolo uno stabiliva: «Roma e le provincie romane fanno parte del Regno d’Italia». Il mattino successivo, tutti i provvedimenti emessi dal Comune di Canepina non furono più “In nome di Sua Santità Papa Pio IX” ma “In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d’Italia”.

Il generale Luigi Cadorna.

A Canepina, tra i principali sostenitori del «si» c’era don Felice Ribichini, il «Prete Garibaldino», fervente patriota che nel 1860 si unì agli uomini del Colonnello Masi che tentarono di liberare con le armi i territori del Viterbese dallo Stato Pontificio e annetterlo al Regno d’Italia. La libertà conquistata durò solo un mese, poi l’intervento di Napoleone III, re di Francia, impose a Vittorio Emanuele II e a Cavour di far tornare la Tuscia sotto il giogo papalino. Don Felice, nonostante il divieto di Pio IX non solo partecipò al Plebiscito, ma fu anche tra i principali attivisti del «sì». Non riuscì invece a veder realizzato il suo sogno Giovanni Orlandi, il ricco commerciante canepinese che durante i moti del 1860 aveva ospitato e rifocillato a sue spese tutti gli uomini di Masi quando attraversarono Canepina diretti a Civita Castellana. Era morto nel 1866, all’età di 71 anni. Non era in paese nemmeno Francesco Luccioli, figlio dell’artista Serafino Luccioli, che dopo i moti del 1860 fu esiliato in Umbria. Tornerà solo l’anno successivo e ricoprirà a lungo vari incarichi amministrativi. Con lui rientrarono tutti i canepinesi che erano stati esiliati dal papato.

Per un certo periodo l’apparato burocratico rimase quello del decaduto Stato Pontificio, il quale riuscì controllare i gangli del potere locale per alcuni mesi. Il governo provvisorio della Provincia di Roma, alla quale è appartenuta Canepina fino al 1927, anno d’istituzione della Provincia di Viterbo, incontrò serie difficoltà a mettere a regime il nuovo ordinamento. All’inizio del 1870 Domenico Boccolini, tipografo, patriota, fu nominato primo Commissario Provvisorio di Canepina. Rimase in carica fino alle prime elezioni comunali, che si svolsero l’anno successivo. Con lui l’apparato clericale fu progressivamente smantellato.

Uno dei primi provvedimenti della prima amministrazione comunale fu modificare il nome di via Vallerio in via XX Settembre, in ricordo della «Breccia di Porta Pia». Una data, il 20 settembre, che è stata festa nazionale fino al 1929, quando fu immolata sull’altare del Concordato.

Una ricorrenza, il 10 ottobre, che andrebbe adeguatamente ricordata e commemorata dai canepinesi.

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