“Mascella”, l’eroe dimenticato di Canepina

Salvò almeno quattro concittadini dall’alluvione prima di essere travolto e ucciso dalla piena

UNA STORIA AL GIORNO… TOGLIE IL VIRUS DI TORNO

Una veduta satellitare dell’area de “e zzaddo Mascella”.

CANEPINA – Di lui si conosce solo il soprannome, Mascella, e la data della morte, il 24 settembre 1878. Ormai pochissimi canepinesi ricordano dove si trova «’e zzaddo Mascella», una cascatella lungo il fosso Rio Maggiore all’altezza della località Ferriera, oggi quasi completamente scomparsa, fino a qualche decennio fa era alta sette-otto metri. E proprio quel «zzaddo», ribattezzato con il suo soprannome, è l’unico riconoscimento tributato a Mascella, l’eroe dimenticato di Canepina.

La sua vicenda è collegata a una tragedia che colpì Canepina 142 anni fa, quando, via Roma (all’epoca si chiamava via Nuova ed era collegata a piazza Sant’Angelo, l’attuale piazza Cavour, da un ponte), via Piazzetta, San Sebastiano e via delle Conce furono investite da quella che oggi si chiamerebbe «bomba d’acqua». Il bilancio fu pesantissimo: nove morti, decine di feriti, case, botteghe, stalle sommerse dall’acqua e dal fango. Tantissimi anche gli animali uccisi. Il numero delle vittime sarebbe stato maggiore se Mascella, uscito di casa sua a San Sebastiano, non avesse preso una grossa tina dalla bottega di bottaio al piano terra, non l’avesse usata come una barca per soccorrere uomini e donne che stavano per essere trascinate via dall’impeto dell’acqua limacciosa. Mentre si accingeva a soccorrere l’ennesima persona, la piena aumentò ulteriormente d’intensità, trascinando via la tina con dentro Mascella. Secondo alcuni racconti, riuscì a mettere in salvo almeno quattro persone, che trovò aggrappate a una pianta, a un muro, a un palo. Le afferrò, le issò nella tina e, remando con una doga, le portò al sicuro. Secondo un’altra versione, le persone salvate sarebbero state il doppio.

Quando l’acqua iniziò a ritirarsi, si scoprì che a causare l’alluvione non furono solo le piogge fortissime durate 24 ore consecutive, ma anche la caduta di due grossi pioppi sugli argini del fosso sul lato posteriore del palazzo comunale. I due tronchi, insieme con una grande quantità di detriti trascinati a valle dalla piena, occlusero il cosiddetto «occhialino», una sorta di galleria sotterranea sovrastata dal palazzetto di piazza Cavour, in cui l’acqua del fosso scorreva prima di riemergere poco più avanti e gettarsi nella cascata sulla sinistra di via Roma. Bisogna tener presente che nel 1878, l’attuale via Mazzini non esisteva. Il centro abitato, in quella direzione, finiva subito dopo l’imbocco di via Donazzano. Per recarsi verso la montagna bisognava passare da via XX settembre (già via Vallerio). Quindi, l’acqua tracimata dall’«occhialino» si riversò violentemente in via Roma, all’epoca molto più stretta dell’attuale, e non poté nemmeno defluire a valle attraverso il ponte, perché all’epoca non esisteva. Vieppiù, proprio dove oggi inizia il ponte c’erano delle case che formarono un ulteriore sbarramento, costringendo l’acqua a piombare con violenza verso San Sebastiano e via delle Conce, dove seminò morte e distruzione.

La copertina del settimanale romano che descrive l’alluvione di Canepina
L’articolo del settimanale romano sull’alluvione di Canepina.

Nel pomeriggio furono recuperati i corpi di otto vittime e i sopravvissuti iniziarono a liberare dal fango le case, le botteghe, le stalle. Poi qualcuno di coloro che erano stati portati in salvo da Mascella si accorse che proprio lui non si trovava. Iniziarono così le ricerche. Alcuni uomini furono incaricati di perlustrare gli argini del fosso fino a Vallerano. Giunti nella località Ferriera, a valle della piccola cascata, trovarono il corpo di Mascella e, poco distante, la tina con cui aveva portato in salvo alcuni compaesani. Da quel giorno, la località fu ribattezzata dai canepinesi «zzado Mascella». Fino al 1935, quando i ruderi della chiesa di San Michele Arcangelo, semidistrutta da un incendio nel 1907, furono abbattuti perché pericolanti, sul lato destro della porta d’ingresso era visibile una mattonella in marmo che indicava l’altezza raggiunta dall’acqua nel 1878. Oltre un metro e mezzo. La mattonella, fino al 1980 circa, era conservata in Comune. Sembra che sia misteriosamente sparita insieme ad altri importanti reperti.

Quella tra il 23 e il 24 settembre 1878 fu una nottata di tregenda per tutto il Viterbese. Il Divin Salvatore, un settimanale religioso di Roma, nel numero 104 del 28 settembre dello stesso anno, in un articolo dall’esplicativo titolo «Flagelli», scrive: «Nella notte di martedì, un furioso temporale imperverso su Roma e in tutta la sua vasta estensione di territorio, massime in quel di Viterbo. In Roma, tranne i danni cagionati dalla piena improvvisa del Tevere… niun’altro infortunio si ebbe a deplorare.

Le notizie però che giungono da ogni parte della provincia sul temporale di detta notte segnalano tutte gravissimi disastri e disgrazie avvenute in più luoghi. A Canepina e dintorni vi furono devastazioni e morti. A Ronciglione, le acque, rotti gli argini, hanno imperversato entro la città e portato via quanto si è trovato sul loro passaggio; carretti, animali, frutta, travi, mobili, botti da vino ecc. Le acque nelle vie erano all’altezza di un uomo: s’immagini il lutto e la paura di tutti gli abitanti, e più le conseguenze.

A Bagnaia l’acqua ha portato via due molini e a Civita Castellana rovinò completamente il ponte di legno sul torrente Treia. Si lamentano molte vittime tuttora sconosciute. La città di Viterbo fu teatro di gravi e luttuose sciagure. Mentre una pioggia diluviale, accompagnata da lampi e tuoni, cadeva sulla città, un fulmine colpì una casa presso la Madonna della Carbonare, mettendo lo spavento in quei paraggi. Nell’istessa ora, presso la cosiddetta Gabbia del Cricco, sotto il convento del Paradiso, le acque, gonfie oltremodo, trasportarono due uomini della Quercia, padre e figlio, i quali poco dopo furono trovati cadaveri. Ma, questo non bastando, avvenne, sull’imbrunire, un’altra disgrazia, che sparse lo sgomento in tutti i cittadini. I cavalli della carrozza postale, venendo da Corneto, giunti al ponte delle Farine, s’impaurirono per lo scoppio e la luce vivida di un lampo; ad un tratto si sterzarono verso il torrente e furono trascinati dalla corrente, volgendo nelle onde i viaggiatori che stavano in vettura. Le due sorelle Stecchinelli, che ritornavano in famiglia dai bagni di Civitavecchia, un frate cappuccino viterbese ed il vetturino miseramente perirono. Un signore napoletano, orefice, viaggiatore, si salvò per miracolo, aggrappandosi alle canne di un canneto che sta sulla riva, ove fu rinvenuto semispento, tre ore dopo la caduta. In tal modo si salvò parimenti un medico di Civitavecchia. Finalmente, trovò pure la sua fine, travolto dalle acque, uno dei due cavalli che tiravano la carrozza.

Il Rio Maggiore, scrivono da Gallese, passando per Canepina, ha diroccato case, asportato masserizie ed animali, e, quel che è peggio, si parla di parecchie vittime umane. Fino a ieri sera mancavano 17 persone. Calando per Vignanello e Gallese, la piena ha abbattuto tutti gli ostacoli, ha trascinato alberi giganteschi e massi enormi di pietra, ha crollato e portato via fabbricati per mole del grano e, distruggendo le pareti dei ponti, si è tracciato nuove strade attraverso le vigne».

A dare il numero esatto delle vittime a Canepina, fu invece il periodico Memorie della Pontificia Accademia dei Lincei, volume 21-22. «… la pioggia, comparsa quel terribile 24 settembre, fece perire sei persone a Viterbo, nove a Canepina, due a Sutri…».

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