La rivolta dei canepinesi contro la tassa sul macinato

Furono inviati da Viterbo ottanta gendarmi per sedare i moti di piazza
Quattro manifestanti feriti, dieci arrestati e undici costretti a esiliare

UNA STORIA AL GIORNO… TOGLIE IL VIRUS DI TORNO

La tassa sul macinato provocò forti proteste a Canepina nel 1860

CANEPINA – «… contro il macinato operava anche un altro sentimento tradizionale in Italia, quello che sempre aveva fatto avverso il popolo ad ogni rincaro del grano per ogni e qualsiasi ragione o motivo. La quale avversione poteva essere stata in molti casi erronea a causa di molti errori, ma ciò non toglie il fatto che nella nostra costituzione di popolo mangiatore di grano non si sia mai potuto dare prosperità con farina cara…». Così, nel suo celebre romanzo «Il mulino sul Po», Riccardo Bacchelli spiega cosa ha rappresentato la rivolta delle popolazioni rurali contro «l’odiosa tassa sul macinato», imposta in più occasioni sia nell’Italia preunitaria che postunitaria. E proprio l’imposizione della tassa (o dazio) sul macinato fece da detonatore alla sommossa avvenuta a Canepina, e non solo, nel tardo autunno del 1860.

Donne impegnate nelle mietitura del grano negli anni Trenta

Questo l’antefatto: nel settembre 1860, i Cacciatori del Tevere, un corpo militare fondato dal colonnello Luigi Masi con evidente riferimento ai gloriosi Cacciatori delle Alpi, dopo aver conquistato Orvieto, si misero in marcia verso Montefiascone, presidiata dalle truppe francesi, per liberarla e annetterla al costituendo Regno d’Italia. Due giorni dopo, il 20 settembre 1860, venne liberata anche Viterbo. Presidente della Commissione Municipale provvisoria fu nominato l’avvocato Emanuele Martucci il quale, come primi provvedimenti, «In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II», abolì il dazio sul macinato. Ma la liberazione di Viterbese e la marcia dei patrioti verso Roma non poteva essere tollerata dal re di Francia Napoleone III, che in pochi giorni, sollevando in tutte le capitali europee la cosiddetta «Questione Viterbese», riuscì ad imporre all’alleato Vittorio Emanuele II e al suo primo ministro Camillo Cavour di far tornare la Tuscia sotto il dominio papale. Fu così che nel giro di un mese, i territori delle delegazioni di Viterbo, Montefiascone e Civita Castellana furono abbandonati dalle truppe di Masi e restituiti al governo clericale. Tra i primi provvedimenti emanati da papa Pio IX, oltre a perseguire pesantemente i patrioti residenti del suo regno, ci fu la reintroduzione della tassa sul macinato.

Decreto d’istituzione del dazio sul macinato del 1870

La reazione della popolazione fu veemente. Ecco come lo storico Nicola Roncalli, nel quarto volume della sua monumentale «Cronaca di Roma 1844-1870» ricostruisce quelle convulse giornate: «A Ronciglione, Caprarola ed in varii altri paesi della provincia di Viterbo la popolazione ricusa di pagare la tassa del macinato, che era stata soppressa all’epoca dell’invasione militare. In Canepina per questo oggetto accadde una insurrezione popolare e furono spediti ottanta gendarmi per sedarla. In Castel Nuovo di Porto, Nazzano, Ponzano e in varii altri piccoli paesi s’innalzò nuovamente la bandiera tricolore…». I capi della sommossa a Canepina suonarono le campane per chiamare a raccolta la popolazione. Subito dopo imposero la riapertura dei quattro mulini del paese. Il palazzo comunale fu praticamente assediato e solo la mediazione del sindaco riuscì ad evitare che venissero bruciati i registri dell’odiata tassa e dell’anagrafe. Nel corso della notte arrivarono gli ottanta gendarmi inviati da Viterbo. Quattro manifestanti restarono feriti negli scontri e dieci furono arrestati. Il paese rimase presidiato dai gendarmi in armamento da guerra per una settimana.

Tra l’altro, gli agenti avevano ricevuto l’ordine di rendere innocui «i noti facinorosi» del paese. Ordine che si riferiva ad alcuni protagonisti del movimento risorgimentale: don Felice Ribichini, il «prete garibaldino», che aveva partecipato con il colonnello Luigi Masi alla liberazione di Montefiascone; Francesco Luccioli, figlio dell’artista Serafino Luccioli, massone, laureato in giurisprudenza, già coinvolto nei moti della Repubblica Romana del 1848 e Capitano della Guardia Nazionale di Canepina; Giuseppe Orlandi, presidente della Commissione Municipale locale, che al passaggio dei Cacciatori del Tevere del colonnello Masi fornì loro vitto e fieno per i cavalli;  Sante Pierotti, vice presidente Commissione Municipale. Francesco Luccioli era  anche Capitano della appena costituita Guardia Nazionale di Canepina.

Manifesto che illustra la tassa sul macinato alla popolazione

Gli arrestati furono: Giovanni Ercoli definito «uno dei capi istigatori», Simone Proietti, Vittore Ercoli, Raffaele Rapiti, altro «capo degli istigatori», Valentino Capone, anch’egli tra i «promotori della sommossa», Domenico Burchiaroni, Nazzareno Mastrogregori Marciano Mariani, Domenico Gulinelli e Giuseppe Fanelli. Tutti costoro, oltre a Francesco Luccioli, furono costretti a emigrare. Di fatto furono esiliati.

Per un singolare gioco del destino, quando nel 1869 entrò in vigore la tassa sul macinato nel Regno d’Italia, da cui scaturirono fortissimi moti di piazza, nello Stato Pontificio, cui apparteneva ancora Canepina, il balzello era stato abolito. I canepinesi, come tutti gli abitanti del Lazio, inizieranno a pagarlo nel 1870, dopo la Breccia di Porta Pia.

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